Del diventare matti e dei pinguini della Patagonia

“Prendo una compressa – dice – per non sentirmi dio e un’altra per non sentirmi una merda e un’altra ancora per non aver paura di sentirmi una merda o forse per non aver paura di sentirmi dio. Non lo so, non l’ho ancora capito. Ma sto molto meglio. Ho imparato a cercare il benessere. Sai, quando arrivi in un centro di salute mentale e compi il primo passo entro il confine della psichiatria, stai così male, spesso anche fisicamente, che il ricordo di quel dolore ti rimarrà addosso per tutta la vita e l’ultima cosa che vorrai è riprovarlo. E tutta la tua vita finirà per costruirsi attorno a questo desiderio. Al primo posto della scala dei valori del malato mentale c’è evitare il dolore. Chi non costruisce la propria vita intorno al sintomo, è guarito, anche se la malattia è ancora lì con lui, cronica, che torna e ritorna. C’è chi è malato, e non ci può fare niente. Chi, invece, ha una malattia, e allora può trascenderla. Io ci sto provando. Ora l’unica mia preoccupazione è riuscire a trovare un lavoro dignitoso per diventare autonomo, e andare a vivere in un altro posto. Insomma, come vedi, ho imparato a lasciare scorrere la mia esistenza con serenità, non faccio grandi progetti. Vivo in modo intenso l’attimo e non oppongo resistenza ai momenti di gioia”. Alberto Fragomeni, Dettagli inutili


Alberto Fragomeni è uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale “
Quella volta che ho pensato di diventare matto” di Massimo Cirri e Mirko Artuso andato in scena Sabato 24 Febbraio in un Teatro Astra al gran completo, come evento in collaborazione con Gli Stati della Mente; è sua una delle voci che ci hanno accompagnato durante la serata: “mi chiamo alberto fragomeni e sono nato a bergamo, nel 1981. […] dopo il diploma, ho frequentato per circa quattro anni l’università cattolica di brescia, un corso di laurea inerente al cinema. poi sono impazzito.”

La prefazione al suo libro “dettagli inutili” è proprio di Massimo Cirri di cui ci rimangono impresse queste parole “[l’autore] ci racconta di come la psichiatria si intersechi con le faccende della vita e di come camminino laicamente a fianco, vita e dimensione psichiatrica. E di come la vita ne viene mutata.”

É proprio questo il tema dello spettacolo, le vite di quanti più o meno noti, più o meno famosi, più o meno autorevoli, hanno raccontato, condiviso, gridato, di quella volta o di quelle volte in cui la vita, così come la conoscevano, si è interrotta; di come la visione si sia offuscata, la stanza abbia cominciato a girare; delle persone che hanno incontrato in questi momenti, di quanti gli abbiano teso la mano, di quanti semplicemente allungato una pastiglia “che mi faceva vedere tutto rosa come un gigante marshmellow”… dei pinguini della Patagonia e del loro modo di guardare noi umani con quel fastidio e disprezzo. I racconti di chi ha avuto un fratello, un amico che poi di colpo è impazzito, o come racconta benissimo Thomas il protagonista de “I quindicimila passi” di Vitaliano Trevisan:

“Mio fratello, penso, mi ha colto di sorpresa. Andandosene dall’oggi al domani, senza nemmeno lasciare un biglietto, una spiegazione, qualcosa, tuo fratello ti ha colto nettamente di sorpresa e ti ha incatenato qui, pensavo uscendo di casa. Mio fratello ha colto l’occasione e se n’è andato senza alcun preavviso, pensavo, e andandosene così, senza alcun preavviso, mi ha colto assolutamente di sorpresa e mi ha paralizzato, mi ha reso infermo, mi ha reso incapace di compiere un’azione come la sua, azione che richiede una grande dinamicità di corpo e di pensiero, mentre io sono paralizzato, se non nel corpo, certamente nel pensiero. (…) O forse non sono affatto paralizzato, ma solo incatenato. Posso camminare e muovermi in tutte le direzioni, ma solo per la lunghezza della catena che mi stringe il cervello, paralizzandolo, inchiavardata all’estremità opposta alla soglia della casa di via Dante. In un certo senso sono paralizzato, pensai, dall’altro invece non sono affatto paralizzato, ma solo incatenato. Sono incatenato e mi sento paralizzato.”

Dell’incapacità di andarsene, di cambiare. Di quella paralisi che ti prende quando più o meno repentinamente e più o meno a lungo, la tua vita, che conosci e in cui ti riconosci, ti volta le spalle. Allora cerchi nuove strategie per affrontare il dolore e la paura della morte, e magari questa strategia è contare i passi ‘con una precisione metodica, senza mai lasciarsi distrarre, perché il vuoto che si porta dentro va riempito di incombenze continue, contare, camminare, calcolare. Gesti esatti, netti, in un tentativo ossessivo di fuga dalla solitudine e dalla morte che lo incalzano’. Proprio questo si dice il protagonista “La vita ci spaventa, pensavo, ma la morte ci spaventa ancora di più, questa è la verità, pensavo nella veranda. Tra il disgusto e il nulla, ho finito sempre per scegliere il disgusto, il disgustoso e l’insopportabile al nulla, penso. Come spiegare altrimenti tutti questi anni di inutile resistenza, tutti i diversivi messi in atto, in una assurda strategia della dilazione, per tutti questi anni? Vivere ci sembra a volte davvero intollerabile, ma l’idea di morire ci è sempre altrettanto intollerabile”. 

Morire, la paura di morire che sopraggiunge nel panico, come nel racconto condiviso da una delle numerose persone che hanno inviato i propri scritti a costruzione dello spettacolo collettivo. Panico, paura della morte. Vergogna di non essere creduti, di essere liquidati come uno che non sta veramente male. Paura di non essere ascoltati, capiti, di essere trattati come un matto: si, ma come un matto che non è mica malato, che fa solo perdere tempo. Il sollievo, quando il peggio è passato, quando con la malattia si è trovato un dialogo, un equilibrio, magari dopo poco o dopo anni. Il ricordo a volte sbiadito di quella volta che… magari qualche dettaglio ancora molto nitido, a volte qualche rammarico. Come quello di non aver accettato di mangiare la pizza con quel dottore in pronto soccorso, quello che ci aveva preso in giro, che ci aveva suggerito in modo ironico di prendere il panico e mandarlo aff… si quel medico… a ripensarci quel medico era proprio matto!